Vittorio De Sica, l’ironia malinconica della quotidianità
/?php get_template_part('parts/single-author-date'); ?>Guidato da una presenza scenica forte e istrionica, si è fatto strada dapprima nel teatro e nel cinema come attore, sino ad affermarsi come uno dei grandi registi cinematografici italiani anche grazie al sodalizio con Cesare Zavattini, scrittore e sceneggiatore, contribuendo alla nascita del Neorealismo.
Nato a Sora il 7 luglio 1901, debutta giovanissimo come attore, interpretando il ruolo di G. Clemenceau ragazzo, nel film Il processo Clemenceau di Alfredo De Antoni. Tra il 1924 e il 1926 passa al professionismo teatrale, al fianco dell’attrice-regista Pavlova, recitando poi nella compagnia Almirante-Rissone-Tofano dal 1927 al 1929. In questo periodo si cimenta saltuariamente anche sul grande schermo in due film di Mario Almirante, La bellezza del mondo (1927) e La compagnia dei matti (1928). Dal 1931 si dedica invece al teatro popolare, con la compagnia di teatro leggero e di rivista diretta da Mario Mattoli, dove diviene un vero mattatore come attore brillante e come chansonnier. La carriera d’attore cinematografica viene intrapresa con costanza dal 1931, con le prime pellicole che confermano la versatilità attoriale di De Sica, compresa la pellicola di Camerini Gli uomini, che mascalzoni… in cui si cimenta con la celebre canzone Parlami d’amore Mariù; il film presentato alla prima Mostra del cinema di Venezia, consolida il successo dell’attore.
Negli anni Trenta fonda la compagnia Tofano-Rissone-De Sica e recita alternando pellicole di spessore, ad esempio sotto la direzione di Camerini, ad alcune più semplici, intervallando comunque sempre con le presenze a teatro, che rimane una costante. Nel 1939 avviene il primo incontro diretto con Zavattini, durante il quale il regista acquista dallo scrittore il soggetto intitolato Diamo a tutti un cavallo a dondolo, da cui dopo diversi rimaneggiamenti per mano dello stesso Zavattini, deriva la sceneggiatura di Miracolo a Milano (1951).
De Sica non è particolarmente entusiasta dei successi raggiunti, è quasi sul punto di tornare in via definitiva al teatro quando, inaspettatamente, nel 1940 avviene il suo esordio nella regia cinematografica, con la trasposizione cinematografica del suo maggior successo teatrale, Due dozzine di rose scarlatte di A. De Benedetti, proposta dalla sua compagnia al Teatro Argentina di Roma nel 1936. Per questo film, dal titolo Rose scarlatte, De Sica si limita in realtà a dirigere gli attori, lasciando i movimenti di macchina e la fotografia nelle mani del co-regista Giuseppe Amato.
Per i seguenti film A Maddalena zero in condotta (1940) e Teresa Venerdì (1941), è ancora molto forte l’influsso di Camerini sulla sua regia, anche se nel secondo film inizia ad affiorare una particolare cura del montaggio e una sceneggiatura, scritta in collaborazione con Zavattini, nella quale domina un’atmosfera brillante a cui fa da sfondo una riflessione sociale.
Nel periodo bellico De Sica torna al teatro con la nuova compagnia Tofano-Rissone-De Sica, con la quale porta in scena drammi e testi pirandelliani, sino al 1942. Torna alla regia con una rievocazione storica sopra le righe con Un garibaldino al convento (1942), mentre nel 1944 dirige I bambini ci guardano. Con questa pellicola viene ufficializzata la collaborazione con Cesare Zavattini, e inizia anche a delinearsi lo stile e l’analisi acuta dei sentimenti calati nella difficile quotidianità, proprio come accade in Ossessione di Luchino Visconti e 4 passi fra le nuvole di Alessandro Blasetti, che rappresentano il punto di svolta del cinema italiano verso il Neorealismo.
De Sica inizia così il cambio radicale della sua visione cinematografia, abbandonando la frivolezza della quotidianità messa in scena sino ad allora, a favore di una nuova prospettiva incentrata sulla durezza e sulla crudeltà vista attraverso gli occhi di un bambino. Anche il suo stile si fa essenziale, abbandonando i sontuosi teatri di posa, a favore di esterni reali, fatti di strade, vicoli e piazze.
Il regista anche in questi anni non abbandona né l’attività teatrale, che lo porta a recitare nel 1946 sotto la direzione di Luchino Visconti ne Il matrimonio di Figaro, né quella di attore cinematografico, diretto da Blasetti in Il tempo e la famiglia Conway, accanto ad Anna Magnani in Abbasso la ricchezza! (1946) e in Cuore (1948) di Duilio Coletti, dove l’intensa interpretazione del suo maestro Perboni vien premiata con il Nastro d’argento come miglior attore.
Con La porta del cielo (1945), sceneggiato con Zavattini, avviene il definitivo passaggio verso la sua nuova concezione di cinema, che raggiunge l’apice con Sciuscià, pellicola totalmente consacrata al Neorealismo. La pellicola s’ispira alla storia di due giovanissimi lustrascarpe incontrati dal regista stesso, con la sceneggiatura che prende forma grazie alle sapienti mani del gruppo formato da Zavattini, Adolfo Franci, Giulio Cesare Viola e Sergio Amidei. Da questo film, che è un atto d’accusa contro il sistema giudiziario e carcerario minorile, il regista inizia ad impiegare interpreti presi dalla strada, in pieno stile neorealista.
Ladri di biciclette (1948) è la sua pellicola più famosa e più premiata, prende spunto dal romanzo di Luigi Bartolini, diventando però l’esempio della struttura narrativa tipica del sodalizio Zavattini-De Sica che valorizza il gesto minimo della quotidianità, “pedinando” l’individuo e la sua semplicità rendendolo, al contempo, universalmente riconoscibile. Il viaggio di Antonio Ricci (Lamberto Maggiorani) e del piccolo Bruno (Enzo Stajola) sono in fulcro della realtà che si svolge davanti agli occhi dello spettatore. De Sica ebbe grandissime difficoltà a trovare i fondi per la produzione, ma proseguì convinto per la propria strada puntando al realismo del suo cinema e rifiutando così le ingenti somme dei produttori americani, che volevano come protagonista della pellicola addirittura Cary Grant. Il regista quindi mise in scena quasi tutti attori non professionisti, presi dalle strade di Roma. La stessa città Eterna con le sue strade, la sua monumentalità, la sua quotidiana umanità è da considerarsi come una sorta di “personaggio” della pellicola. Altra componente essenziale della storia sono le biciclette, icona del mondo lavorativo ma anche della tentazione di infrangere la legge, simbolo della disperazione della sopravvivenza.
La Palma d’oro al Festival di Cannes arriva con Con Miracolo a Milano (1951), dove la coppia De Sica-Zavattina abbandona le atmosfere più famigliari di Napoli e Roma, per spostarsi in una Milano ricca di tipi umani tra i più disparati (e disperati). La pellicola, che è una sorta di favola utopica sullo sfondo della miseria di una baraccopoli alle porte della periferia milanese più estrema, non ottiene il successo commerciale e di pubblico sperato, ma riceverà un importate omaggio per mano di Steven Spielberg, ispirato proprio dalla scena di “decollo” per la ben più celebre scena in E.T. Dell’anno successivo è Umberto D, dove il regista ritorna ad esplorare il reale e il quotidiano con uno stile asciutto e rigoroso, ma nel contempo è un accorato racconto della solitudine e della vecchiaia del protagonista. Con queste opere De Sica raggiunge il punto più alto della sua stilistica neorealista, incappando in aspre polemiche, dovute al finto perbenismo dilagante nella politica italiana, celebre infatti la famosa lettera di Andreotti, di rifiuto della pellicola.
Nonostante il grande impegno alla regia, non sia arresta la sua carriera di attore cinematografico, dove s’impegna a tratteggiare ruoli e caratteri, grazie alla sua garbata ironia e alla sua istrionicità.
Il ritorno alla regia avviene con Stazione Termini (1953), una coproduzione con gli Stati Uniti con protagonista il divo Montgomery Clift, mentre con L’oro di Napoli (1954), tratto dai racconti di G. Marotta, racconta in sei episodi ancora una volta con un occhio particolarmente sensibile, l’infanzia e le difficoltà dell’umanità napoletana, avvalendosi di un super cast tutto italiano, con Totò, Eduardo de Filippo, Silvana Mangano, Sophia Loren e lui stesso.
Per quanto riguarda la sua carriera attoriale, per questo periodo è facile ricordare l’interpretazione dell’affascinate maresciallo accanto alla Lollobrigida in Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini, un personaggio che è entrato di diritto nelle figure archetipe del cinema italiano. Interpretazione diametralmente opposta invece è quella del doppiogiochista Giovanni Bertone, in Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini.
Nel 1956 De Sica ritorna alla regia con Il tetto, mentre del 1960 è La ciociara, tratto dal romanzo di Alberto Moravia, dove l’interpretazione di Sophia Loren di una madre umiliata dagli oltraggi della guerra, viene riconosciuta con un Oscar. L’anno seguente con Il giudizio universale, il regista racconta ancora una volta le ambientazioni napoletane, mentre i film successivi rientrano negli schemi più convenzionali della commedia sentimentale o della satira sociale come Il boom (1963), Matrimonio all’italiana (1964) tratto da Filumena Marturano di Eduardo De Filippo, La riffa, episodio di Boccaccio ’70 (1962) film a più mani diretto anche da Federico Fellini, Luchino Visconti e Mario Monicelli. Ieri, oggi, domani (1963) vince Oscar per il miglior film straniero nel 1965 e consacra il sodalizio tra il regista e la coppia Sophia Loren-Marcello Mastroianni, mentre Un mondo nuovo, noto anche come Un monde nouveau (1966), tratteggia con particolare delicatezza le atmosfere psicologiche
Gli anni ‘70 coincidono con il suo ultimo periodo registico, caratterizzato da coproduzioni più legate al mercato e ai gusti del pubblico, che inizia ad indirizzare il proprio gusto, verso storie più stereotipate, con produzioni interpretate da famosi attori stranieri come Peter Sellers e Shirley MacLaine in Caccia alla volpe (1966), Sette volte donna (1967), Amanti (1968), I girasoli (1970), Lo chiameremo Andrea (1972), che sono in sostanza melodrammi e commedie sentimentali di gusto convenzionale e ambizioni spettacolari. Accanto alle apparizioni televisive nel Pinocchio (1972) di Comencini nel ruolo del giudice e quella cinematografica in Il delitto Matteotti (1973) di Florestano Vancini, due sue regie furono rilevanti in questo periodo: quella di Il giardino dei Finzi-Contini (1970), tratto dal famoso romanzo di G. Bassani, vincitore di un Orso d’oro al Festival di Berlino nel 1971 e di un Oscar per il miglior film straniero nel 1972, per il quale il figlio Manuel compose la colonna sonora. In questa pellicola risulta è evidente tutta l’abilità di De Sica nella direzione degli attori e nell’esaltare la psicologia intrisa negli ambienti sociali. L’altra opera, Una breve vacanza (1973), è la storia di un’operaia calabrese divisa tra la malattia e la voglia di vivere ed evadere dalle ossessioni familiari. Qui il regista ritrova e accentua la sua vena intimista, trasmettendo il concreto senso della solidarietà, come già all’inizio della sua carriera. Nel 1967 ottiene la cittadinanza francese, anche per poter divorziare da Giuditta Rissone madre di sua figlia Emi, per sposare l’attrice spagnola Maria Mercader, conosciuta sul set di Un garibaldino al convento e sua compagna per la vita. L’ultimo film diretto da De Sica è Il viaggio (1974), ancora una volta interpretato da Sophia Loren, è un racconto d’ispirazione pirandelliana, che tratteggia il percorso malinconico di una donna, tra amore e morte, quasi fosse una sorta di presagio della fine dell’itinerario artistico e umano del regista.
Chiara Merlo











