Pietro Germi nel suo tempo: tra neorealismo e sistema dei generi
/?php get_template_part('parts/single-author-date'); ?>Sono innumerevoli le chiavi di volta attraverso le quali si è cercato di dare un’interpretazione dell’esperienza neorealista, tante almeno quante le accezioni con cui si è connotato lo stesso termine Neorealismo, fin dalla sua nascita al centro di controversie teoriche, spesso alquanto fumose. È però generalmente comune a quasi chiunque si sia cimentato nell’impresa di definire il Neorealismo considerare tale movimento, simbolo cardine dell’Italia di quel periodo e della fioritura cinematografica che accompagnò gli anni dell’immediato dopoguerra, come un movimento di profondo rinnovamento. Rinnovamento tanto stilistico quanto concettuale, quando non addirittura, come si evince dalle parole dello stesso Rossellini, morale: «Il mio “neorealismo” personale non è altro che una posizione morale racchiusa in tre parole: l’amore del prossimo»[1]. Prevalgono infatti nettamente le interpretazioni che vedono in tale movimento, per quanto sfaccettato e variopinto, un fondamentale momento di rottura con la maggior parte dei modi di fare e soprattutto di pensare il cinema che fino ad allora avevano caratterizzato la relativa industria e chi in essa lavorava, foss’egli regista, sceneggiatore o attore. Quand’anche la ricerca non si è esentata dall’individuare elementi di continuità tra l’esperienza neorealista e il cinema precedente, lo ha fatto esclusivamente in ottica della stessa produzione nazionale o al massimo in chiave riconducibile a certo naturalismo francese facente capo in particolar modo a Jean Renoir.
Se gettiamo uno sguardo alle filmografie dei singoli registi, piuttosto che concentrarci sulle intersezioni comuni che esse hanno condiviso nel comporre il quadro neorealista, si possono individuare influenze che risultano quantomeno singolari se si tiene a mente la linea interpretativa cui abbiamo accennato finora. Un autore in particolare, Pietro Germi, mostra elementi di continuità con un cinema tradizionalmente visto come separato dal Neorealismo da un’incolmabile distanza, il cinema classico americano.
Non v’è mai stato dubbio, nemmeno quando le cose erano precisamente nel momento del loro farsi, che le prime pellicole di germi appartenessero a quel fermento che ha contrassegnato l’esperienza neorealista nel suo culmine, come molti critici dell’epoca non hanno mancato di sottolineare[2]. Ma non vi sono nemmeno dubbi riguardo al fatto che, in particolar modo per i primi tre lungometraggi, una forte ispirazione sia arrivata a Germi dal cinema di oltreoceano, e in particolar modo dalle caratteristiche e dagli stilemi messi a punto dalla macchina produttiva americana per suddividere e connotare i prodotti cinematografici secondo le etichette di genere.
Questi primi tre film, rispettivamente Il testimone (1946), Gioventù perduta (1947) e In nome della legge (1949) mirano infatti in modo quasi dichiarato ad esprimere la loro materia in termini di intreccio drammaturgico attraverso le convenzioni di precisi generi cinematografici, quali il giallo, il noir e addirittura il western stesso, quasi inedito fino ad allora in Italia.
Il primo di questo terzetto di film, Il testimone, è un giallo che sfocia nel poliziesco, raccontando la storia di un presunto assassino che viene condannato a morte per la prova che offre la testimonianza oculare di un passante disinteressato. La struttura del racconto, portato avanti attraverso differenti regimi di focalizzazione, è tipica del giallo introspettivo. Essa porta conduce lo spettatore allo scioglimento del giallo attraverso molteplici incertezze e ambiguità, facendolo brancolare nel buio per buona parte della durata della pellicola nei confronti della dubbia colpevolezza dello stesso protagonista. A fare da contraltare allo stile, la tematica e l’ambientazione del film si presentano invece come tipicamente neorealiste.
Tutto ciò appare più chiaro, nonché portato a un compimento maggiore, nel conseguente Gioventù perduta. Qui l’intreccio tipicamente noir, accompagnato a livello estetico da un bianco e nero particolarmente contrastato, racconta una storia di criminalità giovanile, ripercorrendo molti archetipi cari al genere, quali la dissolutezza di alcuni personaggi, la caratterizzazione della figura femminile o la graduale immersione del protagonista (figura che sembra porsi al confine tra quella del poliziotto infiltrato e del vero e proprio detective) in un mondo sordido e senza speranza. La realtà in cui versava l’Italia dell’epoca, con i suoi problemi di criminalità giovanile sul versante sociale e con il tema di un vuoto esistenziale di origine ignota su quello interiore, viene raccontata attraverso un registro che può essere accostato decisamente al gusto di tanto cinema americano adesso coevo.
Nel terzo film questa dialettica raggiunge il parossismo, raccontando una storia di mafia ambientata in Sicilia attraverso i canoni narrativi e i procedimenti stilistici del cinema western.
Già dall’invito al cinema operato attraverso il manifesto cinematografico il film rimanda al western, utilizzando elementi chiave dell’immaginario connesso inevitabilmente a tale genere, come il cavallo e il fucile, ma anche utilizzando quella tonalità di giallo simbolo di lande desertiche e assolate che avrebbe a posteriori caratterizzato le locandine della maggior parte dei film western americani.
Ma è soprattutto l’ambientazione offerta dai paesaggi siciliani che permette di porre un parallelismo geografico, prima ancora che stilistico. Quella terra che lo stesso Germi definisce nel prologo al film come una «sconfinata solitudine schiacciata dal sole […], un mondo misterioso e splendido di una tragica ed aspra bellezza» presta il proprio volto per fare da sfondo a una vicenda che sembra presa di peso, nelle proprie dinamiche narratologiche costitutive, da uno dei film di John Ford. L’arrivo di un nuovo pretore in città, determinato a fare trionfare la legge sopra i soprusi che in quei luoghi proliferano senza che alcuno vi si opponga apertamente, non può non far pensare all’archetipo western nel ritorno dello sceriffo che funge da incipit per numerosissime pellicole del genere. Così vediamo i mafiosi che spuntano dalla cima di una collina, a cavallo e con i fucili in spalla come indiani o forse più propriamente come bandidos fuorilegge, nello svilupparsi di un intreccio che vede combattersi due fazioni per l’affermazione della legalità in una cittadina che non conosce legge se non quella degli individui che sanno imporla da sé. La violenza di un mondo ove vige la prevaricazione sistematica del più debole richiamma il mito del selvaggio west, all’interno del quale il protagonista (un Massimo Girotti la cui interpretazione è stata non a caso accostata a quelle cui Henry Fonda dava vita in quegli stessi anni dall’altra parte del mondo) combatte una crociata che diventa sempre più personalistica.
A condurre per mano il regista su questa strada di sperimentazione fu senza dubbio la presa di coscienza del cinema di oltreoceano resa possibile dall’immissione sul territorio nazionale, a guerra ormai finita, di oltre 600 film americani, che Germi non fece mai mistero di apprezzare in maniera appassionata. Non v’è quindi dubbio che il suo eclettismo e la sua temerarietà nell’affrontare vicende che raccontassero storie profondamente radicate nella realtà geografica, politica e sociale in cui videro la luce attraverso un registro completamente estraneo a quella tradizione culturale permisero di portare uno sguardo costitutivamente diverso all’interno del Neorealismo stesso, accostando attraverso un confronto dialettico tradizioni estetiche differenti e dimostrando la loro indubbia e proficua complementarità intrecciando, come nota argutamente Stefania Parigi, l’immaginario neorealista, non solo con il realismo francese d’anteguerra, l’espressionismo tedesco, il realismo sovietico, ma soprattutto con il modello dei generi americani[3].
(Federico Colombo)
[1] Stefania Parigi, Neorealismo, Marsilio, Venezia, 2014.
[2] Gianni Rondolino, Cinema del dopoguerra: uno sguardo d’insieme, in Storia del cinema italiano, vol.VII, Marsilio, Edizioni di Bianco & Nero, Venezia, 2003.
[3] Stefania Parigi, Neorealismo, Marsilio, 2014.