Notte e giorno dell’anno 2019
/?php get_template_part('parts/single-author-date'); ?>Spesso e volentieri le storie di fantascienza sono ambientate nel futuro. Ed esso, quando si sceglie di collocarlo temporalmente in maniera definita, è solitamente situato in un punto di compromesso sull’asticella che congiunge un futuro immediato (che permette di trasportare nella storia tematiche d’interesse, ansie o tensioni che caratterizzano il presente) e un futuro lontano (che evita una la necessità di troppe spiegazioni, oltre alla fastidiosa possibilità di un’immediata smentita dopo qualche anno dall’uscita del film). Di fatto quindi le contestualizzazioni si traducono in numeri, numeri che significano date proiettate nel futuro, momenti incastonati sulla linea temporale, marchi che rimarranno impressi nella cultura popolare e saranno ricondotti agli avvenimenti raccontati in questo o in quell’altro film. E’ il caso del 2015 di Ritorno al futuro (Robert Zemeckis, 1985), del ‘97 di 1997: Fuga da New York (John Carpenter, 1981), del 2047 di Punto di non ritorno (Paul W. S. Andreson, 1997), del 2035 di Io, robot (Alex Proyas, 2004), del 2054 di Minority Report (Steven Spielberg, 2002) o dei lontanissimi 2179 e 2263, riferiti rispettivamente alle narrazioni di Aliens (James Cameron, 1986) e Il quinto elemento (Luc Besson, 1997). E, anche solo limitandoci al cinema, potremmo proseguire l’elenco per pagine e pagine.
In questo oceano sconfinato di date ce n’è una che particolarmente stuzzica il nostro interesse, ed è il 2019. Non soltanto perché poco distante, e in inesorabile avvicinamento, ma soprattutto perché oggetto di riferimento per la propria contestualizzazione narrativa da parte di due pellicole che ne hanno dato previsioni molto diverse tra loro, per non dire diametralmente opposte. I due film di cui stiamo parlando, usciti nelle sale a un solo anno di distanza l’uno dall’altro, sono Blade Runner (Ridley Scott, 1982) e 2019 – Dopo la caduta di New York (Sergio Martino, 1983).
Due approcci diversi, si diceva, due differenti descrizioni di come si prevedeva potesse cambiare il mondo nell’arco di poco più di trent’anni. Partiamo da Blade Runner. Il noir fantascientifico di Scott dipinge una società americana massificata, la realizzazione di un modello estremo di integrazione industriale basato su un capitalismo monopolistico. Essa si riflette nella rappresentazione di una megalopolitica Los Angeles, una città-alveare che si sviluppa in verticale (perché probabilmente ha finito lo spazio per poterlo fare in orizzontale), un abisso che si eleva da un underground di miseria e degradazione, fino a una cima che è a un tempo dominio e appannaggio dei potenti. Questa sperequazione è diretta traduzione della stratificazione sociale di cui la città si compone, così come la logica della costruzione verticale si configura da una parte come necessaria conseguenza della sovrabbondanza di popolazione, dall’altra come riflesso delle logiche di ascensione e dominio di classe imposte da un modello di questo tipo. Nel mezzo è una babele di vita brulicante e compressa, su cui svetta l’onnipresente e magniloquente pubblicità – in ogni sua forma, dal pannello video, allo striscione, dall’annuncio radiofonico alle insegne lampeggianti – espressione di una contesa selvaggia e sregolata tra grosse corporazioni in violenta competizione commerciale.
Sarebbe difficile trovare qualcosa di più distante, rispetto a questo immaginario, di quanto invece troviamo rappresentato in Dopo la caduta di New York. Il film di Sergio Martino prova a leggere il futuro sempre attraverso la feconda chiave della distopia, ma secondo tutt’altri canoni, adottando cioè il modello post-apocalittico, preconizzato pochi anni prima dal Mad Max di George Miller. Qui ci troviamo quindi in un mondo devastato, squassato da un’ultima catastrofica guerra tra due grandi coalizioni contrapposte, quella della nuova Confederazione Americana e quella degli Eurac (contenente Europa, Asia e Africa). La verticalità ritrovata in Blade Runner lascia il posto all’orizzontalità della desertificazione, mentre la compattezza della moltitudine diventa desolata rarefazione. I grattacieli nel film di Martino sono a pezzi e senza vita, vuote vestigia di un ordine politico seppellito da ruderi e macerie. La città è svuotata, vi rimangono i vincitori Eurac che impongono il loro dominio a nessun altro che a un pugno di straccioni, mutati, infetti. Al di fuori di essa, nel resto dell’America – del resto del mondo non ci è dato sapere – è ovunque terra di nessuno, dove vigono rozze consuetudini tribali basate sul diritto del più forte.
Se Blade Runner rappresenta il 2019 in una sua eterna notte, buia e fumosa, bagnata da una pioggia sporca, tenue, perenne, allora Dopo la caduta di New York ne è il giorno torrido e assolato. Il distacco tra il film di Scott e quello di Martino si costruisce infatti di opposizioni geometriche e binarie. Alla rigida struttura economico-sociale di un ordine perfettamente costituito si contrappone la brutale e dilagante anarchia, mentre le tinte noir fanno da contraltare alle stilizzazioni di un western post-atomico. Anche per quanto riguarda la narrazione, frammentata e con continui salti di focalizzazione nel caso di Blade Runner, più classica e attinente al canonico iter da fiaba per quanto riguarda Dopo la caduta di New York, i due film si collocano sostanzialmente agli antipodi, esattamente come per l’estetica da essi veicolata: l’architettura titanica e il pastiche postmoderno delle scenografie concepite da Syd Mead, orientate a produrre un’impressione al contempo futuribile e simbolica, cozzano profondamente – a prescindere dai vincoli imposti da necessità economiche e produttive, evidentemente diseguali per quanto riguarda i due film – con il concept scelto per il film di Martino, minimalista e improntato sul recupero di un codice visivo con influenze post-catastrofiche e medievaleggianti. Perfino le città in cui hanno luogo le rispettive narrazioni, L.A. e N.Y., sono situate su versanti opposti del continente americano.
In questo quadro la presenza dei replicanti costituisce un altro punto di incontro-scontro. In Blade Runner vengono messi in scena per attuare una meditazione sul confine che separa l’uomo e la macchina in un’epoca di crescente ibridazione e reciproca compenetrazione, per riflettere sul fenomeno della vita, sulla percezione di se stessi e del mondo, sulla trasversalità di quella caratteristica che abbiamo imparato a definire “umanità”. In Dopo la caduta di New York la figura del cyborg è illuminata da una luce differente: esso esprime tutto il terrore di una prospettiva in cui gli esseri umani, in un mondo costitutivamente sterile in cui la fertilità di uomini e donne è stata irrimediabilmente minata dall’intossicazione conseguente alla guerra atomica, potrebbero essere rimpiazzati da macchine infinitamente replicabili la cui libertà decisionale è nulla, meri calcolatori in la cui funzione è quella di eseguire ordini. La vittoria del protagonista sull’automa traditore sancisce quindi l’indomabilità di questa “umanità”, la sua genuina irriproducibilità. Due visioni del rapporto uomo-macchina opposte e inconciliabili, quanto l’idea del futuro che propongono.
Il 2019 è dunque finalmente dietro l’angolo e, nonostante nessuno dei due scenari preconizzati all’inizio di quei lontani anni ‘80 sembrerebbe ritrovare oggi particolari attinenze con la realtà dei fatti, non ci rimane che armarci con ancora un pizzico di pazienza e aspettare: il momento della verità si avvicina…
(Federico Colombo)