Manifesti, suggestione, memoria
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Moulin Rouge, Parigi
La massiccia e invadente diffusione di manifesti e cartelloni pubblicitari che dalla seconda metà dell’Ottocento dilagano nelle metropoli europee trasformano profondamente i moderni centri urbani e l’esperienza del cittadino. Camminare per le strade delle principali città europee significa guardare un notevole numero di immagini affisse ai muri. Sicché davvero profetiche appaiono le considerazioni di un critico d’arte quale Claude Roger Marx, il quale afferma che «le strade stesse cospirano nei confronti delle possibilità dell’occhio e della mente di rilassarsi; l’arredo che muta di continuo e copre tutti i muri della città richiama con forza il nostro sguardo, ed anche il passante più occupato o il più distratto deve sottomettersi al fascino di questa vista che accompagna il suo percorso, deve seguire gli arabeschi animati del disegno, estasiarsi di fronte alla flora multicolore che fiorisce dalle pietre grigie. Il fatto è che per essere sicuro di far colpo e convincere meglio il Manifesto ha chiesto aiuto all’arte»[1].
Manifesti come esche per la memoria

Marcello Dudovich, Alla Rinascente novità mare e montagna, 1934
Partendo da tali presupposti e circoscrivendo l’analisi ai manifesti cinematografici, si può ben dire che essi per lo spettatore cinematografico rappresentano una vera e propria esca per la memoria, come la «madeleine proustiana»[2], capace di provocare una serie di reazioni emotive nella memoria individuale e collettiva, per cui un manifesto può, da solo, evocare un intero film, ovvero esserne la memoria più viva ed autentica nel corso del tempo, così da determinare, quasi fosse l’inizio di un incredibile viaggio a ritroso, una indescrivibile ridda di ricordi che investono la sfera del privato non meno che quella dell’intera collettività.
Dopo i primi stentati inizi, quando il manifesto cinematografico era assimilabile a quei “fogli della fortuna”, che tanto successo riscontravano tra la gente, e ne ricalcavano i colori e la grafica, ricercando, proprio attraverso tali accorgimenti, una popolarità che diversamente sarebbe stata difficile da ottenere se si fosse offerto un prodotto assolutamente innovativo ed inedito ad un pubblico di utenti ad esso non avvezzo, si assistette ad una vera e propria integrazione con le forme più aggiornate di tecnica della comunicazione affidate alla cartellonistica ed alla grafica pubblicitaria[3], ispirandosi alle quali il manifesto cinematografico non tardò ad appropriarsi dei più sofisticati moduli retorico-formali, attivati da una forte carica creativa, per pervenire a quegli stessi esiti di persuasione e di sollecitazione[4].
Nuovi metodi comunicativi

Silvano Campeggi, Cantando sotto la pioggia, 1952
I cartellonisti si rendono tempestivamente conto della centralità dell’uso del colore per esprimere emozioni, stati d’animo, seduzioni, paure in un codificato linguaggio cromatico di precise corrispondenze. A riguardo scrive Arturo Carlo Quintavalle che Silvano Campeggi «fu il primo a costituire i generi del racconto del manifesto, che, insomma, fissa come un certo sistema di ‘scrittura‘ e un certo sistema di colori devono rispondere a pellicole di un certo contenuto, o meglio, che certe forme e colori, e certe ‘scritture‘ connotano le pellicole di specifici sensi e non di altri […]. Dunque espressionismo come lingua dotta e tocchi realistici per i ‘gialli‘, realismo in genere alla Beltrame o alla Benois per i film di guerra o i western; tradizione pittorica pompier molte volte, e altre post-impressionista per film d’amore; ironia e quindi film comici raccontati con lo stile dei futuristi e con notazioni cubiste, etc.»[5]. Tuttavia, tra questi, gli interpreti più originali e convinti di quelle strategiche corrispondenze tendono a rifiutare il più scontato e immediato legame tra immagine rappresentata e sequenza filmica, preferendo, a quest’ultima, un percorso autonomo e indipendente per il cartellone, che ricerca così nuove strade per raggiungere i propri obiettivi mediatici, creando un vero e nuovo genere figurativo, dotato di una sua peculiare identità. In tal modo, allineandosi con i manifesti pubblicitari, ma allo stesso tempo distinguendosene significativamente, i manifesti cinematografici si insinuano sempre più di frequente aprendosi varchi di volta in volta più ampi sui muri delle nostre città e, ovviamente, nello spazio mentale dei cittadini e dei passanti, che ne risulta inevitabilmente soggiogato e suggestionato anche in profondità.
Note
[1] C. R. Marx, Masters of the poster: 1896-1900 : reproduces the complete text and all the plates in the series “Les maitres de l’affiche”, preface by Roger Marx, introduction by Alain Weill, notes by Jack Rennert, London : Academy, 1978; D. Villani, Storia del manifesto pubblicitario, Milano, Omnia, 1964; G. Mughini, G. Scudiero, Il manifesto pubblicitario italiano, Milano, Nuove arti grafiche Ricordi, 1974; L. Menegazzi, Il manifesto italiano, Milano, Electa, 1995; A. Rossi, I manifesti, Milano, Gruppo editoriale Fabbri-Bompiani-Sonzogno-ETAS, 1996.
[2] L. Pignotti, Figure e scritture del manifesto cinematografico. A proposito di Silvano Campeggi, in Il Cinema nei manifesti di Silvano Campeggi “Nano” 1945-1969, cit., p. 23
[3] G. L. Falabrino, Effimera e bella: storia della pubblicità italiana, Torino, Gutemberg, 2000;
[4] M. Gallo, I manifesti nella storia e nel costume, Milano, Mondatori, 1972; L. Menegazzi, Il manifesto italiano, cit.; C. A. Quintavalle, Manifesti: storie da incollare, Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 1996.
[5] Cfr. A. C. Quintavalle, L’immagine e le calligrafie, Anselmo Ballester: le origini del manifesto cinematografico; pagine scelte dal diario di Anselmo Ballester, presentazione di A. C. Quintavalle, introduzione di R. Campari e inoltre di F. Montini, M. Verdone, Parma, CSAC dell’Universita, 1981.