Luchino Visconti: la vita, i film, i manifesti
/?php get_template_part('parts/single-author-date'); ?>Regista cinematografico, sceneggiatore, regista teatrale, erede di una casata nobiliare e di una delle più famose famiglie industriali del ramo farmaceutico, con la sua intensa attività che comprende 18 regie cinematografiche, 21 liriche, 45 di prosa e 3 coreografiche, è diventato una delle figure di spicco della cultura italiana del primo trentennio postbellico.
Nella Parigi del 1936 dove i partiti progressisti sono al governo grazie al ‘Fronte Popolare’, accanto al maestro del realismo del cinema francese anni ‘30 Jean Renoir, Visconti inizia la sua carriera cinematografica come assistente alla regia e ai costumi per la pellicola Partie de campagne-La scampagnata (uscita solo nel 1946) ed entra in contatto con la cultura militante di sinistra, grazie all’amicizia con lo stesso Renoir ed a intellettuali come Jean Cocteau. Nello stesso anno inizia la sua attività teatrale, entrando a far parte dell’équipe di Romano Calò. Dopo la morte della madre, si trasferisce a Roma, dove farà un altro incontro fondamentale per la sua impronta cinematografica, stringendo rapporti stretti sia con i giovani intellettuali collaboratori della rivista Cinema che con l’allora illegale Partito Comunista Italiano, al quale rimarrà legato fino alla morte. Da questo gruppo di intellettuali nasce una nuova idea di cinema, che decide di abbandonare le commedie del cinema dei telefoni bianchi, per radicarsi nel racconto realistico della drammatica quotidianità. Affiancato da Pietro Ingrao, Mario Alicata e Giuseppe De Santis, nel ’42 nasce la stesura del suo primo film, Ossessione ispirato al romanzo Il postino suona sempre due volte di James Cain. Con questa pellicola il regista sviluppa un nuovo linguaggio cinematografico, così lontano dalle commedie melense, ambientato in una provincia completamente sconosciuta al cinema fino a quel momento, un linguaggio che attinge dal reale e lo trasporta nella pellicola. Inizia così convenzionalmente il periodo del Neorealismo italiano. Dopo l’armistizio, Visconti con il nome di battaglia Alfredo, collabora con la Resistenza e la sua villa diviene in breve tempo un rifugio sicuro per gli antifascisti.
Alla fine del conflitto, Visconti partecipa alla realizzazione del documentario Giorni di gloria, un film dedicato alla Resistenza firmato da una regia collettiva, che vede tra gli altri registi partecipanti Gianni Puccini e Giuseppe De Santis.
Parallelamente si dedica all’allestimento di prime rappresentazioni di drammi in prosa, realizzando fra il 1945 e il 1947, dieci allestimenti che innescano una vera e propria rivoluzione nel teatro. Con La terra trema del 1948, una pellicola dura e quasi documentaristica, di denuncia delle condizioni sociali delle classi più povere, ritorna al cinema e consegna alla Mostra del cinema di Venezia, uno dei grandi capolavori del Neorealismo. Adattamento dal romanzo I Malavoglia di Giovanni Verga, è uno dei pochissimi film italiani interamente parlati in dialetto ovvero “la lingua dei poveri”, tanto da far uscire una seconda edizione nel 1950, con doppiaggio in lingua italiana. Bellissima del 1951, tratto da un soggetto di Cesare Zavattini, con Anna Magnani e Walter Chiari, è una lucida e spietata analisi di quel mondo cinematografico che non incarna più l’utopistico sogno di libertà, ma è oramai uno strumento disumano di spettacolo e di profitto fine a se stesso. Successivamente il regista alterna l’attività teatrale a quella cinematografica, girando due cortometraggi e un lungometraggio. Il primo cortometraggio è Appunti su un fatto di cronaca (1951), dove il regista si ispira al reale attraverso un triste evento di cronaca nera; il secondo cortometraggio è invece l’episodio Anna Magnani del polittico Siamo donne (1953), dove il regista dirige Nannarella che nel ruolo di sé stessa, rievoca le ultime stagioni dell’avanspettacolo durante la guerra. In aperta polemica con Zavattini, Visconti mette in scena il teatro come verità, in contrapposizione al falso ‘vero’ cinematografico, per ribadire così che la ricercata realtà del Neorealismo, altro non è che una mera illusione.
Il 1954 segna lo straordinario esordio del regista nel teatro lirico, con l’allestimento scaligero di La vestale di Gaspare Spontini, dove la protagonista assoluta è Maria Callas. Questo nuovo fronte nel panorama intellettuale di Visconti, segna in modo implicito l’adozione del melodramma come chiave di lettura anche per i racconti cinematografici, approdando così alla realizzazione del film Senso presentato alla Mostra del cinema di Venezia del 1954. Alida Valli, Massimo Girotti e Farley Granger sono protagonisti di questa che è la prima pellicola realizzata a colori dal regista e che narra la storia, ambientata nel 1866, di una nobildonna veneta e del suo tormentato amore per un ufficiale dell’esercito austriaco, sullo fondo la causa dei patrioti italiani. La pellicola rappresentata il punto di svolta nella filmografia di Visconti, dove la cura per il dettaglio è estremizzata a discapito di quel realismo enfatizzato nella prima parte della sua carriera.
Nei successivi tre anni, Visconti si dedica a numerosissime regie di prosa da Miller ad Čechov e nel 1956 esordisce nel regia di un balletto.
Ritorna al cinema in bianco e nero nel 1957 con Le notti bianche, film ispirato al romanzo di Dostoevskij, interpretato da Marcello Mastroianni, Maria Schell e Jean Marais, con il quale si aggiudica il Leone d’Argento a Venezia. Alternando ancora una volta il teatro, con le regie di due opere di Verdi e Donizzetti e numerosi spettacoli di prosa, nel 1960 torna a vincere Venezia, questa volta il Gran Premio della Giuria, con il discusso Rocco e i suoi fratelli, storia di una famiglia che dalla Basilicata si trasferisce per lavoro a Milano. Il film provoca grandissime polemiche a causa di alcune scene crude e violente e per le dichiarate posizioni politiche del regista, che inizia a essere soprannominato ‘il Conte rosso’. La censura non apprezza la pellicola, così come il successivo l’allestimento teatrale di L’Arialda (G. Testori). L’anno seguente Visconti realizza l’episodio Il lavoro, un mediometraggio con protagonista Tomas Milian e Romy Schneider, inserito nell’opera Boccaccio ’70, che lo vede affiancato ai registi Vittorio De Sica, Federico Fellini e Mario Monicelli. Il grande consenso unanime da pubblico e critica arriva grazie a Il Gattopardo, con il quale si aggiudica la Palma d’oro a Cannes. Tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, interpretato da Burt Lancaster e Claudia Cardinale, è ambientato nel periodo dello sbarco dei garibaldini in Sicilia. La macrosequenza che occupa l’ultima mezz’ora della pellicola, ovvero la famosissima scena del ballo, è il culmine del film stesso.
La pellicola del 1965 Vaghe stelle dell’Orsa, dove il regista conosce il giovane Helmut Berger, che diventerà negli anni uno degli attori-simbolo del suo cinema e compagno di vita, racconta la storia di un incesto attraverso richiami alla mitologia, dalla tragedia greca ai richiami letterari che spaziano da Leopardi, Freud passando da D’Annunzio a Giorgio Bassani, sino ad arrivare a Proust e Baudelaire.

Il gattopardo (1963)
Nel 1966 Visconti gira La strega bruciata viva, un episodio del film collettivo Le streghe interpretato da Silvana Mangano, dove il regista si scontra con il produttore-marito della diva Dino De Laurentiis, che influenzerà negativamente il regista anche l’anno successivo, nella realizzazione de Lo straniero, ispirato al libro di Albert Camus, con Marcello Mastroianni e la partecipazione di Angela Luce. Ispirato dal complesso dibattito storiografico postnazista, Visconti realizza La caduta degli Dei (1969) con Dirk Bogarde, Helmut Berger e Ingrid Thulin come protagonisti. La pellicola narra l’ascesa e la caduta della famiglia Thyssen, proprietaria delle più importanti acciaierie tedesche durante il nazismo. Con questo film si apre la cosiddetta “trilogia tedesca” con le pellicole Morte a Venezia del 1971, tratto dal lavoro omonimo di Thomas Mann, dove il regista esplora il tema di una bellezza ideale e irraggiungibile e Ludwig del 1972, ancora con Helmut Berger nel ruolo del protagonista. Nella sua versione integrale, il film è uno dei più lunghi della storia del cinema italiano, con le sue oltre 3 ore e 40 minuti è un vero e proprio kolossal; narra la storia del monarca di Baviera, Ludwig II e del suo tempestoso rapporto con Richard Wagner, del suo progressivo allontanamento dalla realtà e dalle sue responsabilità di governo, sino alla destituzione e alla sua misteriosa morte. Prima dell’inizio della fase di montaggio, il regista viene colto da un ictus cerebrale che lo lascia paralizzato nella parte sinistra del corpo. Malgrado le sue precarie condizioni di salute, torna al lavoro nel 1973 con allestimento, diventato celebre, della Manon Lescaut per il Festival dei Due Mondi di Spoleto e gira gli ultimi due film; l’autobiografico Gruppo di famiglia in un interno del ’74, ancora interpretato da Burt Lancaster e Helmut Berger, interamente narrato in flashback e con la totale assenza di scene girate all’esterno, una scelta che simbolicamente riflette la totale rinuncia al mondo esterno del protagonista e del regista stesso. Con il crepuscolare L’innocente (1976), tratto dal romanzo omonimo di Gabriele d’Annunzio, interpretato da Giancarlo Giannini e Laura Antonelli, chiude la sua straordinaria carriera; il regista si spegne nella primavera del 1976.
(Chiara Merlo)
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