L’amore infecondo degli anni ’30, ovvero la nascita del moderno cinema dell’orrore
/?php get_template_part('parts/single-author-date'); ?>Nonostante possa essere da molti considerato nulla più che un colpevole divertissement, è ormai opinione sempre più comune tra gli studiosi di cinema il fatto che i film dell’orrore intrattengano un rapporto di tipo speculare con la realtà storica di cui sono prodotto. Essi traggono infatti la propria materia costitutiva dai terrori sommessi che serpeggiano nel pubblico, dalle ansie e dalle tensioni che pervadono la popolazione, rielaborandone le tematiche e sublimandole attraverso la costruzione di icone mostruose. Essi finiscono così per rappresentare, in maniera consapevole o meno, le grandi crisi sociali cui sono contemporanei.
Nei primi anni ’30, negli USA, si assiste a due fenomeni imponenti, all’apparenza slegati fra loro, e riferiti ad ambiti diversissimi. Da una parte gli effetti della crisi finanziaria del ’29 raggiungono il parossismo, inaugurando quel periodo di profonda difficoltà economica meglio noto come Grande Depressione, le cui conseguenze sullo stile di vita della popolazione americana – e non – si sarebbero rivelate da lì a pochi mesi devastanti. Dall’altra si assiste all’uscita di quel primo ciclo di film horror che segna una vera e propria cosmogonia di un pantheon del brivido, con la creazione di quattro archetipi mostruosi che avrebbero dimostrato una straordinaria forza d’impatto culturale e una longevità senza precedenti. I due fatti sono in realtà lungi dall’essere indipendenti l’uno dall’altro: i turbamenti e le angosce di un’intera nazione si concretizzano in ambito artistico attraverso la creazione di personaggi che ne sono vivida rappresentazione. Come chiosa, non senza un pizzico di enfasi, il critico David J. Skal nel suo Monster Show: “Era il momento tanto atteso dagli dèi. Nel nuovo mondo dell’eclissi economica e del sovvertimento sociale il loro potere poteva estendersi all’infinito. […] Il peggiore anno del secolo per l’America si sarebbe rivelato l’annata migliore per i mostri.”
La crisi innescata dalla depressione con i suoi effetti di recessione, il crollo del sistema bancario e di quello produttivo, causarono un vertiginoso aumento della disoccupazione parallelamente ad un altrettanto drastico calo dei consumi, segnando una brusca battuta d’arresto per i sogni, le aspirazioni, le speranze di milioni di cittadini americani. La crisi si era inghiottita in un attimo e senza chiedere il permesso tutti i ruggenti anni ’20; la sfavillante età del jazz, con tutti i suoi incoraggiamenti a uno stile di vita godereccio in salsa seize the day, chiudeva i battenti e divenne chiaro a tutti che le promesse di un progresso socio-economico in cui la classe media aveva investito i propri risparmi e il proprio futuro non sarebbero state mantenute. L’America si trovava di colpo privata di una cultura che l’aveva caratterizzata fino a una manciata di mesi prima. Avrebbe potuto un tale sistema essere riproposto dopo quanto era accaduto? Era lecito orientare le proprie speranze nella stessa direzione? Il concetto di replicazione, o meglio di ri–produzione, può essere utilizzato come chiave di volta per interpretare l’oggetto di quell’ansietà, di quella disperazione, nei confronti del rischio di perdere la possibilità di reiterare il proprio modello culturale, che affliggeva un’America ormai priva di punti di riferimento.
Una prima accezione di questo termine è quella che richiama la produzione in serie di oggetti identici, secondo la logica della catena di montaggio. Il fordismo aveva letteralmente reso grandi gli USA che a partire dalla Prima Guerra Mondiale si erano elevati al rango di potenza economica planetaria proprio in virtù dell’industria meccanizzata, in particolar modo quella automobilistica. Al pari dei singoli pezzi di automobile prodotti dalle fabbriche, gli americani vissero per tutti gli anni ’20 sul nastro trasportatore del progresso, un circolo virtuoso che aveva tutta l’apparenza di potersi reiterare indefinitamente nel futuro. Come abbiamo visto non fu così e, dopo il collasso, l‘idilliaco quadro andato in frantumi non sembra più poter essere ricomposto. In altre parole ad atterrire la popolazione fu soprattutto la consapevolezza che il loro mondo, i loro usi e costumi, non fossero più correttamente replicabili. Questa paura serpeggiante si tradusse nelle funzioni narrative attraverso la seconda accezione, il rovescio della medaglia del nostro termine di riferimento, ri–produzione, ovvero quella più marcatamente letterale: la generazione di una prole mediante l’atto sessuale. L’incubo di perdere la possibilità di costruirsi un futuro secondo le vecchie regole dell’american way of life, il terrore di quello che ciò avrebbe significato per i propri figli e discendenti che di quel futuro dovevano essere i beneficiari, venivano trasfigurati sul grande schermo, come vedremo a breve, nell’ossessiva tendenza a replicare il proprio corpo attraverso metodi innaturali.
Le prime ad arrivare furono due creature della Universal, a breve di stanza l’una dall’altra. Dracula (Todd Browning, 1931) e Frankenstein (James Whale, 1931) sono due esempi emblematici di quanto sopra anticipato. Il protagonista del primo, il vampiro più celebre di tutti i tempi, è un non-morto che crea la propria progenie attraverso il contagio, un seduttore atipico, la cui energia sessuale è catalizzata nella bocca. Innaturalità in questo senso è duplice: in primo luogo egli fa direttamente delle proprie amanti la sua prole; in secondo luogo queste ultime, nonostante l’ipnotico coinvolgimento che le porta ad abbandonarsi tra le braccia del Conte, dopo i ripetuti incontri risultano abbattute e prosciugate, riuscendo a malapena a ricordare le sue visite. Una passione che, non consumata nei termini usuali finisce per perdere ogni fecondità soffocando su se stessa e divenendo anch’essa non-morta. Il secondo personaggio sopra evidenziato invece, il dottor Frankenstein, non è un mostro ma bensì un celebre scienziato impegnato nella battaglia prometeica di donare all’uomo l’immortalità. Il mostro è invece ciò che egli crea, ancora una volta attraverso un parto non convenzionale: piuttosto che affrontare la prima notte di nozze Frankenstein assembla infatti pezzi morti e corpi marcescenti di cadaveri disseppelliti per costruire con le sue mani quella che egli stesso continua a chiamare “la sua creatura”. Una creatura che immagazzina nella propria allegoria anche inconsce ma evidenti metafore di conflitti economici e di classe, simboleggiando attraverso la vestizione e il make-up un esercito di lavoratori abbandonati relegati nei loro abiti da lavoro e in grosse scarpe rotte.
Il terzo archetipo mostruoso che vede la luce nell’anno di grazia 1931 è prodotto questa volta dalla Paramount e ha anch’esso origini letterarie: si tratta del famoso dottor Jekyll, ovviamente affiancato dalla propria inscindibile controparte, il signor Hyde, nel film Il dottor Jekyll (Rouben Mamoulian, 1931). In questo caso replicazione e ri–produzione coincidono in maniera spettacolare, nella messa in scena di una duplicazione quasi mitosica. Hyde, il doppio mostruoso che è il risultato di questa scissione è qualcosa di più che un banale errore di replicazione, esso si configura come l’esatto opposto del suo predecessore e quindi, data la mitezza e la bontà d’animo del caro Jekyll, come il male assoluto.
L’ultimo film che qui prenderemo in considerazione ha una produzione lenta e travagliata e pertanto esce nelle sale nei primi mesi dell’anno successivo anche se, dato il contenuto, non possiamo dubitare che sia anch’esso figlio del trauma della Grande Depressione. Ci riferiamo a Freaks (Todd Browning, 1932), film maledetto e costretto a un’ibernazione forzata per lungo tempo. Il film mette in scena i conflitti, gli incontri-scontri e le vicissitudini che legano, all’interno di un circo, gli artisti normodotati, che impiegano per intrattenere il pubblico i propri trucchi e le proprie arti, e le persone affette da gravi malformazioni genetiche, i cosiddetti appunto freaks, chiamati a impressionare le platee solo in virtù del loro aspetto fisico. Tra le quattro pellicole citate Freaks è sicuramente la più destabilizzante. Il film infatti rinuncia a g ettare ombre su un futuro incerto attraverso l’utilizzo metodi strani e fantasiosi di replicazione dell’individuo; esso grida con voce disperata che la speranza è definitivamente soppressa, che non c’è incertezza perché c’è solo la certezza della dannazione. I freaks dimostrano che anche la sessualità convenzionale è destinata a dare frutti orrorifici, che in America non può più esserci ri–produzione al di fuori della distorsione.
Dopo questa gestazione durata dodici mesi i mostri erano finalmente in libertà, pronti per essere sfruttati ad uso e consumo di un pubblico desideroso di sperimentare paure fantastiche per esorcizzare quelle reali: nasceva il moderno cinema dell’orrore.
(Federico Colombo)