La trappola sociale, il doppio mostruoso e la falsa credenza: i film “nascosti” di George A. Romero
/?php get_template_part('parts/single-author-date'); ?>Molto si è detto e molto si dirà sugli zombie di George A. Romero. La portata rivoluzionaria e la forza eversiva dei film romeriani sui morti viventi li ha resi protagonisti, nel corso dei quasi cinquant’anni trascorsi da quella Notte del 1968 in cui per la prima volta i cadaveri presero vita, di una sterminata letteratura critica. Sono centinaia i libri, gli articoli e i saggi dedicati all’accurata analisi di ogni valenza allegorica dell’archetipo dello zombie, impegnati a rinvenire e sviscerare ogni chiave di lettura a partire dalle sfaccettature dei numerosi elementi simbolici rintracciabili nei film romeriani sui morti viventi. Si è di volta in volta parlato di denuncia alle strategie belliche adottate in Vietnam, di critica al consumismo capitalistico, di atto di accusa nei confronti di una società alienata e massificata. Si potrebbe quindi affermare che il buon Romero sia riuscito a vincere una non facile battaglia, nella quale in vero sono impegnati (la maggior parte delle volte senza successo) molti registi di cinema di genere: quella di veder riconosciuto alla propria opera uno statuto artistico e qualitativo, in un mondo, quello della cosiddetta critica “alta”, in cui è ancora forte e radicata la sensazione di una separazione netta tra cinema popolare e cinema intellettuale. Si tratta però in realtà soltanto di una mezza vittoria. Il culto tributato ai morti viventi ha avuto come rovescio della medaglia l’effetto involontario di mettere in ombra tutta quella parte del corpus romeriano che con gli zombie non ha nulla a che fare, ma che si impone come imprescindibile per capire e delineare il disegno di un autore del quale ogni pellicola costituisce un punto di non ritorno, una tappa fondamentale e irreversibile sul percorso di una riflessione che ha come oggetto l’uomo e la società . Romero procede infatti nella sua poetica in maniera orizzontale, sviluppando in ogni opera nuovi temi o cesellando concetti e intuizioni che nei film precedenti risultavano grezzi o abbozzati, e lo fa sempre con grande forza e anticonformismo rispetto a paradigmi e influenze dominanti. Ed ecco che allora stride il contrasto tra le concezioni che si hanno tradizionalmente da un lato dei film di zombie, riconosciuti  monumenti nella storia della settima arte, e dall’altro dei rimanenti film di Romero, considerati film di culto per un ristretto gruppo di horrorofili. Siamo dunque convinti dell’urgenza e della necessità di soffermarsi a riflettere seriamente anche su quella produzione di Romero ritenuta “secondaria” e della quale cercheremo di evidenziare alcune direttrici comuni e linee di tendenza.
Un buon punto di partenza può essere il tema della convenzionalità delle istituzioni sociali, che è ben rintracciabile attraverso tutta la prima fase della produzione di Romero. L’architettura dei legami civili nei quali gli uomini sono giocoforza incardinati è, secondo il regista, storicamente contingente e culturalmente collocata, e quindi costitutivamente inadatta a sopportare le pressioni cui è sottoposta in un’epoca di cambiamenti. Un esempio chiave ci è fornito dal modello dell’istituzione familiare: la struttura della famiglia tradizionale non può sopravvivere ai profondi mutamenti cui va incontro l’ordine sociale ed è destinata a disgregarsi. I personaggi romeriani lo avvertono ma sono incapaci di trovare una soluzione. Prendiamo i protagonisti di La stagione della strega (1972) e di Wampyr (1977), due film che come vedremo risultano essere imparentati per quanto riguarda più di un punto di vista. Nel primo la timida Joan Mitchell si sente letteralmente soffocata dal ruolo di moglie che le è stato cucito addosso: il sogno con cui il film si apre è la proiezione del senso di impotenza cui la costringono le convenzioni sociali, dalle quali crede di potersi liberare attraverso una wicca moderna, le cui implicazioni non daranno però gli effetti sperati. Nel secondo, viceversa, il giovane Martin è fin dall’inizio posizionato al di fuori della cerchia familiare, anzi più direttamente escluso da essa a causa della superstizione dello zio che in lui vede un essere demoniaco, ed è costretto a sperimentare, in maniera opposta rispetto a Joan, la dura intransigenza di quelle regole che pretendono di dare una definizione univoca a ciò che debba essere una comunità . In mezzo a questi due poli estremi si collocano i due fidanzatini della Notte dei morti viventi (1968): il triste destino cui va incontro (peraltro inutilmente) questa coppia giovane – quindi fertile – ed eterosessuale, che si erge dunque a simbolo della possibilità di riproduzione e speranza per l’umanità una volta terminata la crisi, segnala l’impossibilità definitiva di replicare il sistema di valori tradizionali vigenti.
In questo senso un posto a parte tra le opere di Romero merita Knightriders – I cavalieri (1981). Il film, che rivisita gli avvenimenti legati al ciclo arturiano in maniera assolutamente anticonformista (si pensi al decisamente più filologico Excalibur, firmato da John Boorman e distribuito nelle sale quello stesso anno), e sembra aprirsi alla speranza che la costituzione di comunità create attorno a valori originari, alternativi alla logica del profitto, sia effettivamente possibile, anche se attraverso molte e impervie difficoltà . Il cinico pessimismo dei film precedenti si dischiude in questa pellicola per lasciar trapelare una fiducia maggiore nelle relazioni umane e negli ordinamenti che da esse derivano, rimanendo però un caso isolato all’interno della filmografia dell’autore.
Solitamente, invece, questi tentativi di travalicare i confini delle convenzioni sociali e di alterarne gli equilibri conducono a conseguenze critiche per la personalità dell’individuo e danno luogo a un’esperienza di sdoppiamento. L’estrinsecazione di un doppio mostruoso è decisamente esplicita, oltre che ne La metà oscura (1993), nel sottovalutato Bruiser – La vendetta non ha volto (2000). Se il primo si limita ad affrontare il tema del doppio come in una rivisitazione del classico Dr Jekyll & Mr Hyde, il secondo lo tratta in maniera più sottile. Questa volta il protagonista Henry Creedlow non è escluso dalla comunità in cui vive, ma isolato al suo interno. Nonostante stia facendo di tutto per adattarsi alle regole e vivere una vita da “sogno americano” non riesce a trovarvi soddisfazione: si sforza di assumere il ruolo di capofamiglia mantenendo la moglie, ma lei lo maltratta deridendo i suoi sforzi e lo tradisce con chi ha più successo, denaro e prestigio di lui; nonostante l’impegno profuso non riesce ad emergere nel suo universo lavorativo, dove ad aver fortuna è solo chi si dimostra scorretto, ambizioso e immorale; le relazioni che coltiva sono false e improntate esclusivamente alla ricerca di un utile. Tutta la frustrazione data dalla constatazione che in ciò consiste la sua vita emerge e si concretizza nella maschera che una mattina, di punto in bianco, sostituisce il volto di Henry e che lo farà decidere di prendersi una terribile vendetta.
Tuttavia in questi casi è sempre labile il confine tra la realtà e l’illusione, tra ciò che un personaggio crede che sia e ciò che è realmente. La perdita di lucidità e di discernimento è un altro tema fondamentale che attraversa e pervade queste pellicole. Se si presenta lapalissianamente in La stagione della strega, in cui il delirio della protagonista si alterna a momenti di lucidità fino al tragico epilogo, decisamente più sottile è l’opera di auto convincimento cui Martin è sottoposto dal bigotto e superstizioso zio in Wampyr e che a tratti f tentennare lo spettatore e le sue convinzioni riguardo alla reale malattia del ragazzo. Nello stesso Bruiser non abbiamo la certezza assoluta che le persone con cui Henry si relaziona percepiscano la maschera dietro la quale lui si sente al sicuro nel compiere la sua cruenta vendetta, o che essa non sia piuttosto un artificio creato dalla sua mente al fine di fargli trovare il coraggio per farlo – o addirittura una manipolazione della realtà stessa ad opera della sua mente. Perfino in Monkey Shines risulta sospetta la poco credibile spiegazione scientifica che vede gli scatti d’ira improvvisi di Allan causati da un ponte neurale che l’invalido intrattiene con la terribile scimmietta Ella. Molto più leggibili diventano i suoi comportamenti se li si interpreta come manifestazioni psicotiche legate alla vita quotidiana del ragazzo: la frustrazione di non poter avere una normale vita sessuale, l’umiliazione di dover essere in tutto assistito dall’odiosa e scorbutica governante assunta dalla madre e l’oppressione asfissiante e morbosa di quest’ultima, scatenano in lui pensieri talmente inaccettabili, orrendi e istintuali da doverli attribuire, per proiezione, alla scimmia – che, per inciso, appare già abbastanza cattiva così, senza doverle assegnare ulteriori poteri psicocinetici.
Il velo che separa il reale dall’illusione, che nella variante di causa psicotica trova la sua origine sempre del divario tra il comportamento umano e ciò cui lo costringono le convenzioni sociali, costituisce l’ultima grande barriera che si erge a prigione dei protagonisti romeriani, intrappolati e urlanti in un mondo di cui sono in balia e che non hanno la forza di cambiare.