Dov’è la libertà…? (1954-R. Rossellini)
/?php get_template_part('parts/single-author-date'); ?>Una delle pellicole più travagliate di Rossellini (le cronache raccontano del suo abbandono del set, di Monicelli che porta a termine la pellicola un anno dopo, sino a Fellini che gira le scene finali e il lavoro dei produttori Ponti- De Laurentis per limare l’asprezza e la malinconia delle scene), è interpretata da un inedito Totò che veste i panni Salvatore Lojacono, un barbiere rimasto in prigione per più di vent’anni a seguito dell’uccisione di un uomo che insidiava la sua sposa. Riacquistata la libertà si ritrova senza casa e senza moglie, oramai deceduta; il suo vagare lo conduce nei posti più disparati, sino all’incontro con la famiglia della moglie che stranamente lo accoglie. In questo modo il protagonista scopre retroscena poco edificanti sulla sua vita passata: la moglie non era una donna onesta insidiata dall’uomo da lui ucciso, bensì era la sua amante. Lojacono scopre anche i sordidi intrighi dei cognati durante la guerra, arricchiti alle spalle degli ebrei; gli stessi vogliono spingere il povero Salvatore nelle loro tresche, facendogli uccidere un ebreo e cercando di farlo sposare con una serva, incinta di un altro uomo. Lojacono deluso, amareggiato e profondamente nauseato da tutto questo mondo malato, preferisce ritornare in galera piuttosto che vivere una falsa libertà e cerca di ritornarvi ad ogni costo, con un finale paradossale che metaforicamente critica il reale. Dante Manno è il cartellonista realizzatore di questa versione del manifesto, che pone al centro proprio il viso del protagonista, un Totò affranto e annichilito in un primissimo piano che vien contestualizzato dal copricapo da galeotto. La mimica facciale di Totò viene scolpita da Manno con toni chiari, senza quel marcato uso del chiaroscuro che spesso gli artisti impiegano per tratteggiare il viso di Totò. Questa scelta annulla quella sensazione di “maschera” che spessissimo lo spettatore coglie nelle restituzioni grafiche dell’attore napoletano; questo permette di identificare Totò in un nuovo ruolo, più attinente al mondo cinematografico che alla rivista di varietà. Intorno al viso del protagonista sono inseriti altri due livelli di racconto, nella parte alta, esattamente sopra la testa di Totò, sono raffigurate alcune persone che danzano allegre, un richiamo ad una delle avventure vissute dallo stesso nella ricerca di un posto in cui vivere, una scena che si contrappone alla tristezza dipinta sul viso di Totò e che implicitamente richiama la sua difficoltà nell’inserirsi in una vita così lontana da lui. L’altra scena invece richiama sia l’inizio e la fine della storia narrata dalla pellicola, con Totò con tanto di fagotto che entra (oppure esce) dalla prigione, accompagnato da una guardia carceraria.
La gamma cromatica impiegata dal cartellonista è piuttosto chiara e luminosa nel restituire il viso di Totò, star indiscussa sia della pellicola che del manifesto, mentre il resto delle scene sono dipinte con colori che ha accentuano il senso di drammaticità e di disagio provati dal protagonista. Completa il manifesto la parte dei crediti dove il titolo, realizzato con una colorazione che richiama l’intensità dei sentimenti e che va dal rosso chiaro, sfumato poi in un carminio intenso sino al nero, contrasta con il carattere e il colore scelti per il nome di Totò, una scritta delicata che sembra scritta con un gessetto dal tenue colore del cielo, quasi a ribadire che il personaggio di Totò, pur essendo un galeotto, è l’unico personaggio “pulito” in un mondo che sta andando a rotoli.
Chiara Merlo
Dante Manno (Roma 1911-1996) inizia la sua attività di cartellonista cinematografico durante la Seconda Guerra Mondiale, lavorando anche per il famoso lo Studio Favalli, che realizzava moltissimi dei manifesti cinematografici. Manno lavora prevalentemente per la Lux Film con un’ampia produzione di manifesti, tra i quali “Quando la moglie è in vacanza”, “Il giardino dei Finzi-Contini”, “Riso Amaro” e “Notorius”. Nei primi anni Sessanta abbandona definitivamente l’attività di cartellonista cinematografico, per dedicarsi definitivamente alla pittura da cavalletto.