Giuseppe De Santis, un’eccellenza emarginata dal sistema produttivo.
Regista, sceneggiatore e critico cinematografico, nasce a Fondi (Lt) l’11 febbraio 1917, frequenta le scuole presso un collegio romano, ma ritorna sempre nella campagna ciociara nelle vacanze estive, un vero e proprio “luogo del cuore” che tiene radicato il giovane De Santis alle tradizioni e alla cultura contadina. Appassionato di letteratura, nel ’35 s’iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia , trasferendosi definitivamente nella Capitale; qui continua a stringere importanti amicizie con intellettuali antifascisti, a partire da Libero de Libero a Pietro Ingrao, che saranno fondamentali per la sua sete di conoscenza e per la sua curiosità e per la sua formazione politica. Parallelamente inizia a pubblicare racconti su diverse riviste e a frequentare, tra il 1941 e il 1943, i corsi di regia del Centro sperimentale di cinematografia accanto a Michelangelo Antonioni e Sergio Sollima, pur senza diplomarsi. Nel 1940 Giulio Puccini, figlio dello scrittore Mario, insieme a Francesco Pasinetti, propongono a De Santis di iniziare a collaborare come critico cinematografico alla rivista “Cinema”, diretta dal figlio del duce Vittorio Mussolini, in sostituzione di Peppe Isani. Dapprima titubante, per il timore di fossilizzare in qualche modo la propria creatività, De Santis diviene uno dei critici più prolifici e apprezzati, guidato da una vena polemica e provocatoria e da una scrittura vivace e diretta.
Un’appassionato militante che tramite le pagine della rivista, inizia a delineare le basi teoriche di quel movimento cinematografico che da lì a poco prenderà vita nel Neorealismo; nei suoi scritti trova spazio e ispirazione il verismo di Verga in rapporto con uno nuovo cinema capace di raccontare il reale, attraverso un racconto antropologico e d’ispirazione civile, in contrapposizione con il formalismo dei grandi maestri, un cinema capace di raccontare la coralità staccandosi dall’intimismo individuale. Nel 1942 gira il suo primo contributo cinematografico, un cortometraggio per il Centro Sperimentale, dal titolo La Gatta, mentre nel ’40 aveva già partecipato alla scrittura della sceneggiatura, al fianco di Gianni Puccini, per il Don Pasquale di Camillo Mastrocinque. Ma il vero grande ingresso nel mondo cinematografico avviene accanto a Luchino Visconti con Ossessione (1943), dove riveste il ruolo di aiuto regista e di co-sceneggiatore al fianco di Pietro Ingrao, Mario Alicata e dello stesso Visconti. A partire da questa fondamentale pellicola, si dà inizio convenzionalmente al Neorealismo italiano. La partecipazione alla Resistenza e alla lotta armata acuiscono ancor di più la successiva ricerca di De Santis e della sua personale cifra stilistica, che si traduce nell’immediato dopoguerra, in due film commissionati dall’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia): Giorni di gloria (1945), film di montaggio a episodi sulla Resistenza, di cui è coordinatore con Mario Serandrei e Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano, storia di un reduce che si converte alla lotta partigiana, in cui è assistente regista e sceneggiatore. Accanto a Roberto Rossellini è sceneggiatore, non accreditato, per il travagliato film Desiderio, iniziato nel 1943 e completato nel 1946 da Pagliero. Con questa sceneggiatura, in cui viene narrata la vicenda di solitudine ed emarginazione una giovane prostituta, De Santis inizia il racconto, che si estende per tutta la sua prima fase cinematografica, di storie femminili che rappresentato lo sfruttamento e la voglia di riscatto, sullo sfondo di uno scontro tra classi sociali e tra sessi. Caccia tragica (1947), prodotto dall’ANPI, è il suo film di esordio come regista, un racconto corale sulla lotta tra i banditi del padronato e le cooperative agricole emiliane, dove è emblematica la figura della collaborazionista Lili Marlene (Vivi Gioi), che incarna con sensualità l’aspetto torbido della vicenda. Il film chiarisce da subito la grande ispirazione che i cineasti russi hanno su De Santis, con l’inserimento della vicenda in una struttura corale, ma è forte anche l’influsso drammaturgico dei film noir, in primis quelli di Jean Renoir. De Santis utilizza da subito la macchina da presa in un modo innovativo, che diverrà poi la sua cifra stilistica, con ampi movimenti di macchina, azzardando anche l’introduzione di macchinari nuovi, come ben dimostra ad esempio il lungo piano-sequenza del treno in corsa, realizzato grazie all’impiego di una gru.
Con Riso amaro (1949) sfonda i confini del successo italiano, spingendosi Oltreoceano con la candidatura agli Oscar per il miglior soggetto assieme a Cesare Zavattini. Il film, che consacra la giovane e sconosciuta Silvana Mangano a diva del cinema, ha un successo del tutto inaspettato; la storia della condizione delle mondariso nelle paludi del Vercellese, guidate dalla prorompente sensualità della Mangano, diviene un vero e proprio fenomeno di massa, una sorta di melodramma neorealista che si pone come una sorta di spartiacque tra il neorealismo e il nuovo cinema italiano degli anni ’50. La pellicola si pone come un luogo di incontro e di contaminazione tra la cultura alta del neorealismo e la cultura di genere, racconta il durissimo lavoro delle mondine e la storia passionale e contorta dei protagonisti, grazie soprattuto alla sensibilità del regista di aderire all vissuto e
all’immaginazione popolare, cogliendo l’ansia sociale e la voglia di riscatto.
L’amore per la campagna ciociara sfocia nella pellicola Non c’è pace tra gli ulivi (1950), dove continua il viaggio del regista nel raccontare il mondo rurale, sperimentando nuove tecnologie per il mercato
italiano, come ad esempio l’uso di lenti per conferire una maggiore profondità di campo mantenendo a fuoco l’intera inquadratura. Anche il questo caso vengo “lanciati” nel mondo del divismo due attori, Raf Vallone e Lucia Bosè, che diventeranno amatissimi dal pubblico. Alla sua prima esperienza come assistente operatore Pasqualino De Santis, fratello minore di Peppe, che inizia da qui una grandissima carriera come direttore della fotografia, che lo porterà a vincere un premio Oscar per la pellicola di Franco Zeffirelli Romeo e Giulietta (1968), il primo italiano in questa categoria.
La tematica femminile torna prepotentemente anche nei successivi film Roma, ore 11 (1952), dove viene abbandonata la tematica contadina a favore del racconto di un tragico incidente che vede vittime numerose ragazze in cerca di lavoro e Un marito per Anna Zaccheo (1953), sul calvario umano e sociale di un’aspirante fotomodella, dove per la prima volta abbandona il racconto corale a favore di un’introspezione a tutto tondo di una singola figura. De Santis riesce a cogliere le sfumature del tessuto sociale italiano, trasmettendolo attraverso pellicole che stilisticamente contaminano il romanzo popolare con la realtà, attraverso una critica ideologica e una cifra stilistica complessa, fondata sulla sperimentazione visiva costruita tramite i campi lunghi, panfocus, elaborati piani-sequenza, carrelli e ampi movimenti di gru e una drammaturgia che si ispira allo straniamento di Bertold Brecht. A partire da queste due pellicole inizia ad infrangersi il rapporto privilegiato del regista con il pubblico, complice anche il rapporto di De Santis con la politica e la censura, guidata dall’allora Ministro per lo Spettacolo Giulio Andreotti e l’amplificazione data dai giornali della sua fama di intransigente cineasta. De Santis inizia ad essere boicottato ai festival ed ha sempre più problemi nel reperire i fondi necessari per le sue pellicole, difatti riuscirà a girare solo 11 film in ben 25 anni.
Con Giorni d’amore (1954) ritorna sia lo scenario rurale con l’ambientazione ciociara, sia la centralità della figura femminile, incarnata da Marina Vlady al fianco dell’innamorato Marcello Mastroianni, in un racconto che ha le tinte di una favola contadina.
I problemi di De Santis si acuiscono con la pellicola Uomini e lupi (1957), un racconto sul mondo arcaico dei lupari abruzzesi, con la consueta acuta osservazione sociale del regista ma la casa di produzione Titanus intende profondamente manipolare la pellicola che vede protagonista la Mangano; il risultato è il plateale abbandono del regista, che disconosce il film e denuncia il tutto il una lettera aperta. La figura di De Santis continua così ad essere particolarmente scomoda per il mondo produttivo cinematografico italiano, che non accetta il suo rigore ideologico e la sua costante fedeltà al proprio modello lavorativo. Questa incessante lotta con i produttori lo porta a trasferirsi, nel 1958, in Iugoslavia per girare un affresco simbolico e corale sulla fame e sul lavoro dal titolo Cesta duga godinu dana (La strada lunga un anno), con Silvana Pampanini e Massimo Girotti; la pellicola è molto apprezzata all’estero, con un Golden Globe ed una candidatura all’Oscar per il miglior film straniero, mentre in Italia viene rifiutata alla Mostra di Venezia ed esclusa da tutti i circuiti distributivi, in pochissimi riescono a vedere il film. Nel 1960 torna a produrre in Italia, grazie ad un indipendente, la pellicola La garçonnière, un racconto di una borghesia in crisi con Raf Vallone nei panni di un professionista di mezza età, conteso da due giovani amanti. La coralità e il profondo sentimento antimilitarista vengono condensati nel malinconico Italiani brava gente (1964), una coproduzione italo-sovietica che racconta la tremenda disfatta italiana nella campagna di Russia; De Santis viene accusato al tempo di antipatriottismo. Completamente emarginato dal sistema produttivo italiano, autoproduce la pellicola Un apprezzato professionista di sicuro avvenire (1972), amara metafora di una società oramai votata al compromesso. Accanto agli anni di silenzio cinematografico, scorro altrettanti anni fondamentali per le nuove generazioni del Centro sperimentale, che possono avvalersi di De Santis come illuminato insegnante di recitazione. Accanto ad uno dei suoi studenti, Bruno Bigoni, torna alla regia nel mediometraggio di stampo documentaristico Oggi è un altro giorno (Milano 1945-1995), una attenta riflessione sull’attualità della Resistenza e della sua memoria storica. Si spegne a Roma il 16 maggio 1997, dopo aver finalmente ricevuto nel 1995, il Leone d’Oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia.
Grande protagonista del Neorealismo, creatore di una cifra stilistica personalissima messa al servizio di un racconto che sapeva cogliere l’immaginazione di massa combinandola con un’epica resistenza contadina, convogliando la militanza politica e le lotte sociali, in una struttura narrativa sospesa tra melodramma e racconto popolare.
Chiara Merlo