EFFETTO NOTTE. Il cinema nel cinema
/?php get_template_part('parts/single-author-date'); ?>Sperimentazione, denuncia ed esaltazione di un mondo costellato di luci e ombre, sono alla base dell’autocelebrazione della fabbrica dei sogni. Ma c’è posto anche per la sala cinematografica, lo spazio privilegiato in cui si compie la liturgia della visione filmica. Al tempio dello stupore e delle illusioni la settima arte dedica una serie di opere che fissa per sempre l’incanto di questo luogo magico.
di Giuseppe Colangelo
Come un pittore difficilmente resiste alla tentazione dell’autoritratto, così il cinema, compiuti i primi timidi passi, si lascia sedurre dall’idea di rappresentare se stesso. Ma se l’artista scruta in solitudine la sua interiorità e fisicità per interpretare ed esprimere la propria personalità, il cinema, frutto di un insieme di contributi, dispone di molteplici scelte per mostrare le varie sfaccettature che lo compongono e lo caratterizzano. Infatti, nella messa in scena del narcisistico gioco dell’autocelebrazione, nella quale si sono cimentati un po’ tutti i grandi autori, nessuna componente è stata trascurata, soprattutto da quando la ‘macchina dei sogni’ si è convertita in una grande industria con l’esigenza di partorire con continuità idee nuove. I cineasti cominciano a muoversi in questa direzione ponendo al centro del proprio interesse le molteplici possibilità offerte dalla macchina da presa, le capacità dell’operatore di catturare e trasformare frammenti del reale, nonché le problematiche che accompagnano l’esperienza di attori, registi, comparse, sceneggiatori, e di quanti gravitano nella sua orbita.
Si passa così dai virtuosismi sperimentali de L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov alle figure che popolano Cinecittà in Intervista (1987) di Federico Fellini, dal racconto degli anni pionieristici delle storie in celluloide rievocati in Vecchia America (1976) di Peter Bogdanovich alla rappresentazione di mondi spietati come quello delle produzioni filmiche descritto in L’uomo che non sapeva amare (1964) di Edward Dmytryk. Dalle biografie dei grandi divi quali, per esempio, Rodolfo Valentino, l’indimenticabile amante (1951) di Lewis Allen all’omaggio agli stunt-man di Collo d’acciaio (1978) di Hal Needham, fino alle sottili citazioni che arricchiscono il Dracula (1992) di Francis Ford Coppola e ai più recenti e straordinari film diretti da Quentin Tarantino.
Un meraviglioso caleidoscopio di immagini in cui non poteva mancare il giusto riconoscimento reso da sceneggiatori e registi allo spazio privilegiato per celebrare la magia del film: la sala cinematografica, le sue macchine, i proiezionisti, gli esercenti, il pubblico, il tempio oscuro nel quale vivono i sogni e le emozioni della settima arte. Tributo che, al di là delle innumerevoli opere lastricate di citazioni, va dal divertente La palla numero 13 (1924) di Buster Keaton, in cui uno strambo proiezionista accusato di furto, in sogno, immagina di entrare in un film nel quale ha modo di dimostrare il proprio coraggio e la sua onestà, al poetico e celebrato Nuovo cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore. Da La pazza eredità (1957) di Basil Dearden, Bersagli
(1968) e L’ultimo spettacolo (1971) di Peter Bogdanovich al viaggio compiuto attraverso la Germania da un riparatore di proiettori e ai suoi incontri con i gestori di sale raccontato in Nel corso del tempo (1975) diretto da Wim Wenders. Passando per Un uomo di spettacolo (1977) di John Power, La vela incantata (1982) di Gianfranco Mingozzi, Variety (1983) di Bette Gordon, Demoni (1985) di Lamberto Bava e La rosa purpurea del Cairo (1985) di Woody Allen, omaggio alla magia del cinema e alle sue origini per certi versi simile alla già citata pellicola di Keaton. Seguiti da Drive In 2000 (1986) di Brian Trenchard Smith, lungometraggio nel quale si racconta della Terra sconvolta da un conflitto atomico dominata da dispotici governanti che attirano i giovani sbandati in cinema all’aperto trasformati in realtà in campi di concentramento. Fino a L’angoscia (1987) di Bigas Luna, Splendor (1989) di Ettore Scola, Il proiezionista (1991) di Andrej [Michalkov] Konchalovskij e The Majestic (2001) di Frank Darabont.
Un discorso a parte meritano Matinée (1993) di Joe Dante, Nitrato d’argento (1996) di Marco Ferreri e il mirabolante Bastardi senza gloria (2009) di Quentin Tarantino. Nel primo, un intraprendente produttore, (John Goodman), pressato dai debiti e alla ricerca di un grande successo, si accorda con il proprietario di un cinema per presentare il suo ultimo film horror intitolato Mant! Organizzano così una finta contestazione di padri di famiglia indignati e installano in sala il “Rumble Rama”, sistema che scuote le poltrone aumentando l’emozione degli spettatori. Non contenti, mandano in platea anche un uomo travestito da grosso insetto. Il pubblico, colto dal panico, alla fine distruggerà addirittura l’esercizio commerciale. Splendida metafora, ambientata nei primi anni Sessanta a Key West all’epoca dell’incubo atomico che attanagliava gli Stati Uniti, in cui il buio della sala con i suoi film si trasforma nel luogo dove si materializzano i fantasmi che provengono dagli strati più nascosti del nostro inconscio.
Marco Ferreri, invece, nell’ultimo film realizzato prima della sua rimpianta scomparsa, che per uno strano gioco del destino rappresenta paradossalmente una sorta di canto del cigno del suo percorso artistico, si sofferma sui riti consumati nella tradizionale sala cinematografica ormai inesorabilmente superata dal corso dei tempi. Accurata rivisitazione della storia del cinema vista con gli occhi degli spettatori. Un excursus dalle origini ai giorni nostri composto da spezzoni di pellicole e da momenti vissuti dal pubblico con intensa immedesimazione. Il tutto girato in alcune delle più belle sale di Budapest.
Tarantino, infine, con una serie di colpi di genio e una marcata vena grottesca riesce a rinchiudere, con tanto di catenacci, in un cinema parigino il Führer e tutte le alte sfere del nazismo, incendiando l’intera struttura. «La sua passione per il cinema di genere» scrive Giancarlo Zappoli, «unita al piacere di raccontare storie, lo porta a riscrivere la Storia ufficiale con un attentato a Hitler collocato nell’unico luogo in cui il regista americano può pensare si possa attuare una giustizia degna di questo nome: una sala cinematografica. È solo al cinema che i cattivi muoiono quando devono e gli eroi si sacrificano o trionfano.» Non a caso John Dillinger, uno dei più famosi gangster americani, viene assassinato all’uscita dal Biograph Theater di Chicago dopo essersi recato a vedere Le due strade (1934) di W. S. Van Dyke, con Clark Gable nel ruolo di un fuorilegge. Cruento agguato al centro di una corposa serie di film, riproposto di recente con grande maestria in Nemico pubblico (2009) da Michael Mann.