Alle spalle dell’uomo: l’apparato scenico nel cinema di Luchino Visconti
/?php get_template_part('parts/single-author-date'); ?>Così chiosava Luchino Visconti nel 1943, all’epoca trentasettenne, all’interno di un famoso articolo pubblicato sulla rivista «Cinema» dal suggestivo titolo di Cinema antropomorfico: “Al cinema mi ha portato soprattutto l’impegno di raccontare uomini vivi […]. L’esperienza fatta mi ha soprattutto insegnato che il peso dell’essere umano, la sua presenza, è la sola cosa che veramente colmi il fotogramma, che l’ambiente è da lui creato, dalla sua vivente presenza, e che dalle passioni che lo agitano questo acquista verità rilievo; mentre anche la sua momentanea assenza dal rettangolo luminoso ricondurrà ogni cosa a un aspetto di non animata natura. Il più umile gesto dell’uomo, il suo passo, le sue esitazioni e i suoi impulsi da soli danno poesia e vibrazioni alle cose […]”.
Siamo nei momenti che coincidono con la lavorazione di Ossessione (1943), esordio ufficiale di Visconti dietro la macchina da presa e pellicola seminale che costituisce, oltre che l’avvio per l’autore di un percorso multiforme e sfaccettato, un vero e proprio punto di frattura nella storia del cinema italiano. La concezione elaborata da Visconti nell’articolo preso in esame sembra curiosamente porsi al contempo in continuità e in contrapposizione con la concettualizzazione della realtà filmica che emergerà gradualmente dall’opera del regista, nel suo progressivo farsi e costituirsi attraverso le numerose tappe di un itinerario che prima che artistico è soprattutto umano. Essa infatti da un lato lascia trasparire l’interesse precipuo per le ragioni più intime dell’agire dell’uomo, che saranno espresse attraverso l’azione drammatica dei protagonisti delle vicende di volta in volta narrate. Dall’altro però stride con quell’attenzione da sempre dedicata da parte di Visconti alla realizzazione di una realtà scenica che fosse qualcosa di più rispetto a un palcoscenico sopra il quale lasciar muovere gli attori-personaggi, ma si configurasse come vera e propria parte integrante del processo di ricostruzione del reale. Questa contraddizione spiccatamente dicotomica ha spinto a considerare il fatto che la paternità dell’articolo possa essere in qualche modo dubbia. Secondo il regista Giuseppe De Santis infatti, che a quell’epoca militava anch’egli nel gruppo di giovani intellettuali che gravitavano attorno a «Cinema», Cinema antropomorfico sarebbe stato scritto da Gianni
Puccini.
L’attore trova insomma, nei film diretti da Luchino Visconti, la più completa aderenza al personaggio soltanto se inserito nel giusto contesto, in un ambiente che deve essere minuziosamente pensato ed allestito proprio per riuscire a suscitare attraverso la messa in scena quell’impressione di realismo che consente di superare perfino la rappresentazione del reale come esso è davvero. È su questo snodo teorico che si consuma la principale frattura tra il realismo di marca viscontiana e quello più spiccatamente neorealista i cui ispiratori furono in primo luogo Zavattini, De Sica e Rossellini. Secondo Visconti non si perviene a nessun risultato se ci si accontenta di osservare le azioni degli uomini senza intervenirvi drammaturgicamente. Dal momento che vivere nel mondo e osservarlo attraverso un medium sono due fattori completamente distinti, allora è necessaria in qualche modo un tipo di mediazione tra la realtà fenomenica e la sua rappresentazione: una mediazione che prende la forma di una ri-costruzione della realtà fatta precisamente come deve essere per poter venire ritratta all’interno del fotogramma e comunicare così l’impressione di verità allo spettatore, un’impressione che paradossalmente la verità stessa non basterebbe a suscitare.
In questo senso assume un ruolo chiave proprio lo stesso apparato scenico. Il gesto dell’attore non avrebbe alcun significato, non potrebbe dipanarsi nella sua essenziale veridicità se non fosse collocato in un contesto appropriato. Il lavoro di Visconti si dirige quindi in maniera duplice orientandosi da un lato sull’attore per renderlo a tutti gli effetti un personaggio, dall’altro sulla costruzione minuziosa della messinscena. Per quanto riguarda i personaggi la recitazione degli interpreti deve essere orientata all’espressione di quei conflitti interiori che sono il motore universale dell’agire umano. Le passioni condizionano le relazioni tra gli uomini, ne condizionano l’agire all’interno di quel palcoscenico che è la vita. Attraverso il ritratto del singolo Visconti ci restituisce una dimensione universale, stigmatizzata e codificata di volta in volta in un caso particolare che assume un valore archetipico. Non è un caso che quasi l’intera produzione cinematografica di Visconti sia composta da pellicole che traggono la loro materia da un soggetto letterario, dal quale il regista toglie il pretesto narrativo per comunicare la sua propria visione del mondo. L’attore è dunque al contempo persona e simbolo, riuscendo a raggiungere questo status proprio al contesto nel quale viene collocato.
Il lavoro del regista sulla messinscena si configura dunque come complementare rispetto a quello sull’attore: si basa sulla minuziosa ricostruzione della suggestione formale attraverso la ricerca ossessiva della perfezione rappresentativa, per raggiungere quella condizione in cui, come nota Gianni Rondolino “è come se tutto fosse vero, autentico naturale, e al tempo stesso artefatto, pazientemente costruito, irreale”[1]. Una rappresentazione del reale, dunque, che si colloca fuori di esso per poterlo cogliere e rappresentare nella sua interezza.
Il palcoscenico sul quale Visconti mette in scena le sue storie non è mai uno sfondo statico, non si ferma alla semplice osservazione della realtà: la ricostruisce secondo un progetto formale. Ecco che ciò che sta alle spalle dell’attore – alle spalle dell’uomo – diventa essenziale nel nesso che con i personaggi costruisce. Un cinema (e un teatro, se vogliamo estendere questo concetto all’intera produzione artistica di Visconti) basato sull’interdipendenza di recitazione e di scenografia.
È questo il realismo viscontiano, una forma di realismo che costituisce la pietra angolare attorno alla quale il regista fa ruotare l’intera sua opera, nella quale non si riescono a riscontrare vere e proprie ricorrenze stilistiche se non quella che consiste nella ferma decisione di affrontare ciascun tipo di realtà attraverso i mezzi formali che più le si addicono e che più ne consentono una rappresentazione vivida e drammaturgicamente intensa.
(Federico Colombo)
[1] G. Rondolino, Luchino Visconti, UTET, Torino, 1981.