ALLA RICERCA DELL’EDEN. CINEMA E MIGRAZIONI
/?php get_template_part('parts/single-author-date'); ?>Esodi biblici ed epopea della frontiera americana, drammi nazionali e individuali, compongono sul grande schermo il variegato mosaico dell’emigrazione. Fenomeno umano in perpetuo movimento oggi più che mai al centro dei problemi di un mondo sempre più indifferente e incapace di accettare l’idea di un futuro interculturale.
Di Giuseppe Colangelo

Il cammino della speranza (Pietro Germi, Italia, 1950)
La forte caratterizzazione migratoria che la scoperta delle Americhe e la successiva rivoluzione industriale hanno dato all’umanità, influenza anche la produzione cinematografica, la quale, fin dalle origini, racconta le dure e drammatiche esperienze vissute da milioni di anonimi individui catapultati per necessità in realtà loro del tutto sconosciute. Intere famiglie, avventurieri e vagabondi, affrontano con coraggio e speranza insidie e incognite di un mondo nuovo, dando vita a un grande spostamento di massa che dalle aree più povere del pianeta muove ininterrottamente verso quelle più ricche. Fenomeno legato a cause ambientali, religiose, sociali o frutto delle enormi contraddizioni economiche che spesso convivono all’interno di uno stesso paese, come per esempio l’Italia, in cui la forte emigrazione dal Sud verso il Nord alimenta fin dalla seconda metà dell’Ottocento il dibattito sulla nota e mai risolta “questione meridionale”. Problematica molto cara a Luchino Visconti che dopo la Terra trema (1948) pone al centro del capolavoro Rocco e i suoi fratelli (1960) ancora una volta drammi e disagi dei meridionali, alla disperata ricerca di una speranza per risollevarsi dalla miseria.
Nel secondo caso, a differenza della famiglia di pescatori siciliani del film ispirato a I Malavoglia di Verga, che per sottrarsi alla povertà cerca di comprare una barca finendo per perdere l’abitazione e piombare nell’indigenza, racconta di una vedova lucana costretta a partire con i suoi figli alla volta di Milano. Qui, la spaesata famiglia, si sistema in uno squallido seminterrato di periferia dove, però, ben presto, si scontra con le dure leggi della grande metropoli: difficoltà di adattamento in un nuovo contesto sociale, senso di estraneità in un ambiente ostile e la pungente convivenza con la nostalgia della propria terra.

Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata (Luigi Zampa, Italia, 1972)
Tuttavia, ai disagi e le paure che nella realtà attanagliano i migranti, determinati dal dover dar corpo a una nuova esperienza di vita lavorativa e sociale, linguistica e culturale, si affianca il dramma aberrante del razzismo e dell’emarginazione. Condizione in cui sono stati e sono tuttora costretti a vivere milioni di persone che, comunque, con il loro operato hanno contribuito e contribuiscono ancora a far grandi molti paesi. Violenza e ingiustizie sovente dilatate dal cinema a epopea o a eroiche imprese come, per esempio, nei film deputati a consacrare il mito della frontiera americana. Opere che forniscono al filone western un’infinità di spunti per allestire uno dei generi più amati e prolifici dello schermo. Durante tutto l’arco della sua storia, infatti, al di là delle molte citazioni e la ormai assidua rappresentazione di società multietniche, il cinema mette a fuoco il tema dell’emigrazione cercando di scandagliarne un po’ tutte le sfaccettature. Si passa così dall’episodio L’emigrante (1915) di Charlie Chaplin a Mosè che conduce gli ebrei verso la terra promessa ne I dieci comandamenti (1923) di Cecil B. DeMille. Dal dramma di un gruppo di emigranti siciliani de Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi all’ostinata determinazione con cui dei profughi ebrei cercano di sbarcare in Palestina in Exodus (1961) di Otto Preminger. Passando dal paradossale matrimonio per corrispondenza di Bello, onesto, emigrato in Australia sposerebbe compaesana illibata (1971) di Luigi Zampa alla sintesi delle vicende di un popolo di Karl e Kristina (1971) e La nuova terra (1973) diretti da Jan Troell, dall’amaro Pane e cioccolata (1973) di Franco Brusati fino alla recente odissea vissuta dagli albanesi in Lamerica (1994) di Gianni Amelio, L’articolo 2 (1994) di Maurizio Zaccaro, il periglioso viaggio verso un agognato futuro affrontato da una famiglia di poveri in Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese e Il destino nel nome (2006) dell’indiana Mira Nair.

La sposa turca (Fatih Akin, Germania-Turchia, 2004)
Ma la storia corre sempre più veloce, tanto da fornire alla settima arte una serie infinita di spunti sul tema. Sulla nostra quotidiana attualità. Se le immagini sconvolgenti fornite dalla televisione rischiano di assuefare lo spettatore, il cinema nel suo ventre buio consente una maggiore attenzione, ha la capacità di colpire al cuore. Appunto ancora oggi le struggenti immagini della nave stracolma di disperati del lungometraggio di Gianni Amelio, che dall’Albania si dirige verso l’Italia, riescono a fornire le dimensioni umane di un dramma infinito. Al pari della commovente e dura vicenda raccontata da Welcome (2009) diretto da Philippe Lioret, in cui un giovane clandestino iracheno attraversa l’Europa per unirsi alla sua ragazza stabilitasi in Inghilterra. Dopo alcuni tentativi falliti nel tentare di raggiungere la costa britannica, l’incontro a Calais con un istruttore di nuoto, separato dalla moglie che finirà per ospitarlo in casa, dà vita a una profonda amicizia. L’uomo alla fine acconsentirà di preparare il ragazzo determinato ad attraversare a nuoto il canale della Manica.

Cose di questo mondo (Michael Winterbottom, Inghilterra, 2002)
Seguito da Cose di questo mondo (2002) di Michael Winterbottom, La sposa turca (2004) di Fatih Akın, Vai e vivrai (2005) di Radu Mihaileanu, L’ospite inatteso (2007) di Thomas McCarthy, Verso l’Eden (2009) di Costantin Costa-Gavras, Almanya – La mia famiglia va in Germania (2011) di Yasemin Samdereli e Miracolo a Le Havre (2011) di Aki Kaurismäki.
Altrettanto interessante, data la potenza del libro Non dirmi che hai paura (Feltrinelli) di Giuseppe Catozzella, si prospetta il film omonimo ormai in cantiere. «Pensare che la storia di Samia possa trovare posto sul grande schermo mi colma di entusiasmo» dice il pluripremiato

Almaya. La mia famiglia va in Germania (Yasemin Samdereli, Germania, 2011)
scrittore che con questa opera si è aggiudicato tra gli altri il Premio Strega Giovani 2014. «Può essere una buona occasione per puntare un forte riflettore sugli epici viaggi di questi eroi dei nostri giorni.» Il sogno di Samia di poter correre in libertà, di riuscire a gareggiare al pari di altre atlete, si infrange contro il muro invalicabile dell’integralismo. Una delle altre grandi piaghe a caratterizzare i flussi migratori del nostro presente. Un presente vigilato anche dal cinema, il cui risultato finora è un excursus variegato e ad ampio raggio, attraverso il quale sullo schermo si percepisce il credibile spaccato di una delle vicende più ampie, drammatiche e crudeli dell’intera umanità.